Paul Auster è passato di qua. Due i pretesti: presentare il suo nuovo romanzo Man in the Dark (gemello notturno dello scialbo Travels in the Scriptorium, 2007) e proiettare su uno schermo cinematografico The Inner Life of Martin Frost (2006), sua seconda pellicola da registautore dopo Lulu on the Bridge (1999). Di Martin Frost avevo già parlato su Kitsch quando vidi apparire in libreria la sceneggiatura del film. Non la presi come una buona notizia, poiché credevo che la storia dell'antipatico scrittore Frost fosse nata da una costola di The Book of Illusions (2002) e che Auster, in vena di onanismo, avesse deciso di darci in pasto la vicenda nella sua interezza, quando invece è proprio il rogo che la interrompe nel romanzo a renderla preziosa. Mi sbagliavo. O almeno, non sapevo tutta la storia di Martin Frost. L'ha raccontata lui personalmente, lui che a sessant'anni suonati è ancora un uomo di fascino, affabulatore malandrino e narratore impeccabile anche quando non se ne accorge. Va detto, tuttavia, che quando sorride e annuisce il suo volto si trasforma in una maschera demente. Uno ci rimane male.
Martin Frost nacque come sceneggiatura nel 1999, all'indomani delle riprese di Lulu. Non nacque granché bene, e Auster lasciò la bozza nel cassetto. Durante la lunga stesura di The Book of Illusions (due anni, e si vede: il tempo ripaga sempre) ebbe l'idea di inserire The Inner Life come uno dei film sperimentali che l'ex comico Hector Mann ha diretto nella sua fattoria. L'unico che il protagonista riesce a vedere, anche se solo in parte. Ma Auster taglia, e brucia, esattamente là dov'era arrivato in sede di sceneggiatura. Con la differenza che per l'occasione riscrisse la storia in forma di prosa. Il romanzo del 2002 sturò una vena letteraria che aveva dato segni di cedimento da quando il cinema - il "gioco di squadra" - era entrato prepotentemente nella stanza silenziosa di Paul. Smoke e soprattutto il film jam-session Blue in the Face, co-diretto con Wayne Wang, avevano scombussolato la vita ritirata dello scrittore. Che nel secondo caso diede anima e corpo per tutti i sei giorni di riprese... e i dieci mesi di montaggio. Ragion per cui, nonostante il flop di Lulu e la ripresa alla grande dell'attività letteraria con The Book of Illusions e Oracle Night (2003), Paul Auster progettò molto presto di passare nuovamente dalla macchina da scrivere alla macchina da presa. Riprese in mano The Inner Life, la riconvertì nel formato sceneggiatura, la sviluppò fino a farne un lungometraggio.
Dopo aver incassato una serie di no o di forse, nel 2006 il produttore portoghese Paulo Branco si disse interessato al progetto e il film si fece, con pochi soldi, 25 giorni di lavorazione, una troupe di 18 persone e quattro attori in stato di grazia: David Thewlis (per la terza volta protagonista dopo Naked, 1993, e L'assedio, 2000), Irène Jacob (ex musa di Kieslowski), Michael Imperioli (esilarante caratterista dei Sopranos) e Sophie, figlia di papà appena maggiorenne e dotata della voce di un angelo. Dopo due anni, il film non ha ancora trovato una distribuzione e un motivo c'è. Purtroppo. E' il film di uno scrittore che non vuole che i suoi libri diventino film. Un film che rispecchia in tutto e per tutto la visione di un uomo nato per scrivere nel buio della propria stanza, con i propri fantasmi e il proprio silenzio. Per quanto alcuni dialoghi siano simpatici (altro aggettivo non s'attaglierebbe) e l'immagine di una macchina da scrivere che rotea nel buio o avanza verso lo spettatore come un oggetto cosmico è molto efficace, nel complesso siamo di fronte a un'operina.
Lo stesso Auster valuta il film come una short story. E lo dice uno che non ha mai assemblato una raccolta di racconti. Parole sue: una Storia da scrivere è tridimensionale e imprevedibile nella forma che assumerà; una storia da filmare è bidimensionale come lo schermo sul quale finirà proiettata. Il cinema non fa per Auster, tutto qua. Non lo interessa davvero come lingua, come medium. Ecco perché il cinema Babylon era pieno: perché c'era lui in carne, ossa e occhioni ipnotici che a un dato momento racconta come scrive. Scrive a mano, tutti i giorni. Poi batte quel che ha scritto con una macchina da scrivere. E quando si tratta di consegnare il file all'editore, paga una sua amica affinché ribatta al computer quel che lui ha ribattuto a macchina. Si può credere a una storia del genere? Ogni scrittore degno di questo nome esercita un potere su di noi, e ci può chiedere di credere nell'impossibile. A leap of faith. That's what he wants us to do.
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