12 ottobre 2021

Orecchi/e

 


È andata: dopo dodic'anni di nomadismo social e progetti come Tutti a Berlino, sono tornato al blog. Orecchie trovate nei prati riprende il filo di Kitsch interrotto nel 2008 e lo modula passando alla forma lunga, con pubblicazioni irregolari ma intense. Ogni articolo, un ascensore coi cavi recisi - o un rasoio elettrico che s'imbatte in una placca di titanio. Parlando di elezioni tedesche ho anche iniziato a fare quel che in teoria avrei dovuto fare quindici anni or sono aprendo questo, di blog, cioè scrivere in tedesco. Besser spät als nie. Questo vale anche per la fine dell'era Merkel e l'inatteso, in buona parte fortuito scatto di reni socialdemocratico. Orecchie è un blog su wordpress che si spaccia per .com secco perché, come per il mio sito professionale, ogni tanto crepi l'avarizia. Per il resto, le novità internettiane sotto il segno del cacciavite sono pochine, ad esempio le playlist introdotte su Bassa risoluzione. Sul fronte della vita vera sto per iniziare un'avventura alla Humboldt - e speriamo bene - con Yassien abbiamo avviato la procedura per l'adozione e il lavoro macina, con l'orizzonte ormai oltre la fossa pandemica e la speranza che la serialità lo cementi ulteriormente. Prima di tornare al posto fisso, magari come bibliotecario prussiano. Chi lo sa. Wisteria dreaming.


12 ottobre 2020

{Aglan-}


Cinque anni dall'ultimo post su questa stazione di smistamento.
Nel frattempo Yassien e io ci siamo sposati anteponendo il suo cognome da parte di padre al mio, con tanto di trattino breve di liaison.

Crepi l'avarizia. Il vecchio blog wordpress che funge da portfolio della mia attività lavorativa è ora uno smagliante .com senza pubblicità, invariato nel contenuto: info sui libri tradotti (ormai una settantina), cv vari, zip con tutte le recensioni pubblicate in rete dal 2004 in qua.

Sempre parlando di libri tradotti, l'algoritmo di anobii consente un efficace colpo d'occhio con l'elenco pressoché completo della mia produzione. Chissà cosa succede quando inizieranno a uscire le traduzioni firmate col cognome da marito.

Odin è morto. Tra gli istanti grezzi, i tagli profondi e i carotaggi che compongono bassa risoluzione c'è anche un montaggio dedicato a colui che mi ha regalato i quattordici anni più belli della mia vita.

Le foto di luoghi europei su flickr si fermano all'ottobre 2019 e, di fatto, al nostro viaggio nel Caucaso dell'anno scorso, quando attraversammo il Nagorno Karabakh di notte in treno e c'innamorammo dell'Armenia.

L'immagine che accompagna il post unisce Kati Outinen nel finale di Kauas pilvet karkaavat (1996) a Markku Peltola in Mies vailla menneisyyttä (2002). Kati è davanti al Ristorante Lavoro - una scena che mi fa sempre zigare - mentre Markku siede sotto al ritratto di Matti Pellonpää, istituzionale e messianico come quello dell'ex primo ministro Urho Kekkonen della Lega Agraria che compare ad esempio in Ariel (1988). Negli ultimi mesi mi sono (ri)visto tutti i film di Aki, maturando una discreta ossessione per Pellonpää-Nikander.

E se tutto va bene ripartiranno le Orecchie trovate sui prati. Trzymamy kciuki. ياريت


 

12 ottobre 2015

su internet


Qualche novità nei link della colonna di destra che riassumono la mia presenza in rete.

Su twitter ho rinominato il vecchio account @tuttiaberlino, trasformandolo in @simbuttaz. Le eventuali novità circa il vademecum Quodlibet continueranno ad apparire sul sito del libro e su un nuovo account cinguettante... recante il vecchio nome.

Il blog wordpress della mia attività lavorativa si è arricchito di circa cinquanta post, quanti sono i libri che ho tradotto dal 2005. In ogni post copertina, estremi bibliografici, isbn ed eventuale rassegna stampa. Gli articoli appiccicosi in cima al blog continuano a riportare cv e lista dei testi pubblicati in rete - di critica cinematografica, letteraria, attivismo lgbt, argomento politico. Il tutto scaricabile in pdf.

Sull'account youtube hanno cominciato ad affiorare recuperi del passato recente. Conto di caricare nei prossimi mesi numerose digitalizzazioni di vhs-c anni 1993-2003.

Il profilo flickr contiene centinaia di foto scattate in Europa, soprattutto a Berlino.

Su anobii tengo una selezione di libri da comodino frammisti ai titoli da me tradotti.

Infine, un altro blog su wordpress che risponde al nome di Orecchie trovate nei prati e vorrebbe qualificarsi, prima o poi, come un novello kitsch / kicz. Tutto permettendo. Per ora è un dazebao vuoto, così come questo unwort, nato nel 2006 come tentativo di blog crucco, è una mera stazione di smistamento.

31 gennaio 2010

Am Ziel


Unwort si svuota e getta l'ancora.

1 novembre 2009

Über Achternbusch


Riporto la parte finale di un articolo di Katja Nicodemus uscito sulla «Zeit» di giovedì 24 settembre 2009. Il pezzo è apparso in una doppia pagina dedicata agli anarchici e ai Querdenker della Germania di oggi. Nicodemus si concentra sulla settima arte e cita il buon vecchio Herbert insieme a quel furbastro di Bruce La Bruce, con particolare attenzione alla sua discreta parodia frocia della RAF The Raspberry Reich (2004).

Di seguito, traduco la colonna che si occupa di Herbert:

"La sua critica al cattolicesimo più bigotto spinta fino all'assurdo, il suo grufolare nella palude dei sensi di colpa tedeschi, il suo infiltrarsi nel folklore mainstream bavarese sortiscono un effetto, a prescindere dal DNA anarchico del periodo in cui vennero condotti, ancora più radicale, e vengono ulteriormente rinforzati da una narrazione senza tempo, laconica, quasi documentaristica. Il canale ZDF censurò la seguente frase in occasione della messa in onda del suo film Der Kommantsche, nel 1976: "Hitler voleva consolare Dio con sei milioni di ebrei, ma c'è stato un grosso malinteso". In Wohin? Achternbusch se la prende con l'isteria da Aids degli anni Ottanta e fa monologare Kurt Raab, HIV-positivo, in un Biergarten. Tema: la sua malattia. L'eroe di Das Letze Loch vuole dimenticare l'Olocausto in questo modo: bevendosi un bicchierino per ognuno dei sei milioni di ebrei uccisi. E alla fine di Der Depp Achternbusch fa avvelenare Franz Joseph Strauß [celebre e potentissimo leader della CSU, la branca bavarese della CDU] nella birreria Hofbräuhaus di Monaco. Nel suo film più stravolgente, Bierkampf, il regista eleva il vero Oktoberfest a metafora della vita stessa e del mondo intero. Dice il personaggio di Sepp, da lui interpretato: "Sapete, c'ho riflettuto a lungo: il mondo non è ancora stato salvato da nessuno. Non può essere salvo, perché non esiste ancora. Non è proprio niente di niente, il mondo". Così facendo Herbert Achternbusch ci regala un cinema che al di là dell'impianto sovversivo coltiva sempre un'utopia o almeno il suo grado zero, la disperata nostalgia del giorno successivo alla catastrofe".

13 dicembre 2008

Bleierne Stadt


Questa macchina è un demonio: adula il mio ego dando forma ai miei pensieri. Non ha bisogno di trasformarsi in uno scarabeo arrapato, la Schreibmaschine di Kurt. Così com'è, con le dita che la martellano a raffica, è già un diavolo. Ogni tasto una tentazione. Perché mai resistere? Kurt Severing è uno dei protagonisti della saga a fumetti che Jason Lutes sta dedicando alla Berlino degli ultimi anni della Repubblica di Weimar, dal settembre 1928 al gennaio 1933. La prima parte è uscita nel 2000, Berlin: City Of Stones, tradotta in tedesco come Steierne Stadt. Il tomo secondo (2008) reca il titolo City Of Smoke, che la versione crucca "tradisce" optando per Bleierne Stadt, città di piombo. La casa editrice Carlsen ha preferito un aggettivo eufonico che richiamasse il primo titolo. Soluzione legittima che tuttavia si sgancia da un elemento importante della storia. Il fumo, per l'appunto, delle ciminiere alla ripresa del racconto (siamo nel giugno del 1929), quello dei sigari in bocca ai tozzi capitalisti immortalati da Grosz - e la fumana astratta, senza origine apparente, che commenta la morte di Stresemann nell'incipit del quarto capitolo. Ex cancelliere, il premio Nobel per la pace Stresemann era allora ministro degli Esteri. La sua morte in seguito a un infarto lasciò un vuoto nell'impalcatura già pericolante della Weimarer Republik.

Come il primo libro, anche Città di Piombo è suddiviso in otto capitoli. Lutes riprende alcuni personaggi - come Kurt e Marthe - e ne introduce di nuovi, in particolare un gruppo di jazzisti americani in trasferta, i "Cocosa Kids". Le peripezie dei protagonisti s'intersecano col corso della storia tedesca: proseguono gli scontri sanguinosi tra comunisti e camicie brune, la crisi americana arriva anche in Europa e le proposte della NSDAP in materia di economia e lavoro seducono una fetta sempre più ampia della popolazione. La politica, ben lungi dall'essere un mero fondale di cartone, è la vera protagonista dell'opera di Lutes.

Per quanto la simpatia dell'autore e del lettore cada necessariamente sui "Genossen" - per scelta spontanea o almeno per repusione nei confronti dell'altra estremità - Lutes si comporta da vero storico e cerca di raccontarci le cose come stavano. Con la DKP (il partito comunista) che mette mano alla pistola con la stessa furia dei suoi nemici ed Ernst Thällman, il segretario voluto da Stalin (assurto a eroe assoluto sotto la DDR), che sbraita e snocciola slogan in un comizio del tutto simile a quello di Goebbels. Cambiano giusto il vestiario e lo stile retorico. Con la SPD (il partito socialdemocratico) che brancola nell'incertezza e nella vacuità. E con "loro", i futuri mastini del Reich millenario, che marciano ordinati e propagano populismi precotti. Lutes sceglie di omettere la svastica, simbolo ad altissimo rischio kitsch. Così facendo, il lettore giudica le camicie brune per quello che fanno pagina dopo pagina invece che per quello che rappresent(er)a(n)o.

Bleierne Stadt è un romanzo a fumetti di finissima fattura. Lutes conosce a menadito ciò di cui parla (urbanistica compresa!) e ci regala uno spaccato che unisce l'autorevolezza del documentario al lirismo delle migliori graphic novel. Le tavole pulite, il tratto sobrio e preciso di Lutes sono una gioia per gli occhi. A suo modo, con la serie Berlin l'autore si fa portavoce di una nuova "Nuova Oggettività"... Tra le chicche di questo spicchio centrale delle trilogia, una scena licenziosa in stile Eyes Wide Shut e i retroscena della vita schwul (lesbo e gay) dei tardi anni '20. La marcia in più dell'edizione tedesca sono i dialoghi pronunciati dai personaggi più poveri, in berlinese stretto. Didi & Stulle: prendete nota.

6 dicembre 2008

Werner, fliegender Vater


Se c'è una cosa che non sopporta è il cinéma vérité. Werner Herzog lo ripete spesso: per catturare la verità non basta filmarla. Non basta una registrazione fedele. A lui interessa che sia la verità a catturarci. Che ci accechi questa verità, e ci ecciti. Ma Herzog non va alla ricerca di una verità qualsiasi, bensì di quella che chiama verità estatica. Questo spiega perché non esiste una linea di demarcazione netta tra la sua produzione narrativa e quella documentaristica.

Werner Herzog sostiene - senza scherzare troppo - che Fitzcarraldo è il suo miglior documentario. Un resoconto inscenato e filmato passo passo su come un uomo ossessionato dall'opera sia riuscito a (far) trasportare un battello oltre una collina. Per Herzog il cinema è sempre e comunque messa in scena, anche quando imbocca la strada neutrale e "giornalistica" del documentario. Senza una regia, senza uno sguardo presente e fisso sul soggetto, la verità non passa allo spettatore. O passa, ma sotto silenzio. Priva di ralenti, quella dell'intagliatore Steiner non sarebbe mai stata una grande estasi.

In Mister Lonely (2007), Werner Herzog torna a recitare per Harmony Korine dopo l'esperienza di Julien Donkey Boy (1999). Nel sesto film targato Dogma 95 Herzog interpretava il padre del protagonista, una maschera antigas calata sul viso. Anche stavolta interpreta un padre, ma in senso religioso. E' il missionario protagonista della vicenda che si dipana parallelamente alla trama principale del film. Mentre gli "impersonatori" giubilano nella loro comune scozzese, padre Umbrillo vola sulla jungla panamense in compagnia di un gruppo di suore che si scoprono in grado... di volare. Di atterrare, cioè, indenni, senza paracadute, dopo essersi divertite un mondo in caduta libera.

Padre Umbrillo è un Flying Padre quasi come il Fred Stadtmueller del corto di Kubrick del 1951. Non è un medico, Umbrillo, se non di anime, come quella di un uomo fedifrago col quale si intrattiene a lungo nel piano sequenza che lo introduce, di pacca, nel tessuto del film. Herzog è un grande fan del travagliato autore di Gummo (1997), e quando si piazza davanti al suo obiettivo scigolie le trecce e sfodera il suo umorismo impassibile e catastrofico, à la Buster Keaton. Si agita, Werner / Umbrillo, solo quando incita le suore a buttare i sacchi con i viveri, tant'è che una di loro perde l'equilibrio e vola giù, azzurra nell'azzurro - dando il la all'estasi. La scena in cui padre Herzog, in primissimo piano, riflette sul miracolo delle suore volanti sutura alla perfezione la sua idea di cinema estatico e riflessivo con quella più scabra e anti-fiabesca di Korine.

Mister Lonely è un film che dispensa singole perle e grandi idee, ma nel complesso non tiene. Forse Todd Solondz sarebbe stata la persona più adatta per dirigere il film, magari separando il tuorlo dall'albume (due storie consecutive, non montate, come in Storytelling) o calcando la mano sulla favola nera (Palindromes). Resta il fatto che la sottotrama estatica di padre Umbrillo è materiale da magnifica ossessione. Nel prefinale, il missionario scalda i motori e si prepara a volare in Vaticano con le sue suorine miracolate. Questo papa è bavarese, dice il regista bavarese. Mi farò un cicchetto come si deve.

11 ottobre 2008

Bunker-Art



Ich sammle Kunst, die ich nicht verstehe. Colleziono arte che non capisco. Così Christian Boros, il Saatchi di Berlino, che da pochi mesi ha sistemato le opere in sueo possesso nel pieno centro della città. In un bunker di superficie. La collezione ha aperto i battenti in primavera ma il numero dei visitatori è chiuso e sigillato, come si confà a un bunker. Il biglietto costa 10 euro - per la capitale tedesca, un'enormità - e si può prenotare la visita, rigorosamente guidata, solo via internet. Scegli tu sul calendarietto java che ti si spaparanza davanti. Hai impegni tra tre mesi? No perché prima non si può, è tutto pieno.

Il bunker di Reinhardt Str. 20, a due passi dalla stazione di Friedrichstr., ha una storia lunga e sbriciolata, alla faccia della sua imponenza monolitica. Nel 1941 non c'era più posto untergrund, per cui i nuovi bunker dovettero camminare sulla terra. Questo qua lo cominciarono i nazisti e lo finì l'Armata Rossa nel 1945, giusto in tempo per usarlo come prigione e luogo di torture. Col passaggio di consegne alla DDR, il Partito pensò bene di adibire il colosso a morbida dispensa. Vi stoccavano banane e ananas d'importazione (cubana?). Da lì il nome che è durato fino ai tardi anni '80, Bananenbunker. Niente di meglio, per una Bananenrepublik. Dopo la Wende - il cambiamento, ovvero la riunificazione - il bunker cadde nelle mani dei Ragazzi della notte, come direbbe Jerry Calà. Un paio di geniali architetti dell'intrattenimento notturno (precursori di chi ha inventato il Berghain) decisero di riqualificarlo quel minimo che bastava per ambientarvi party sado-maso e iniettarvi musica techno. Le mura vibrarono e furono testimoni di una nuova sequela di torture - questa volta volontarie. Ma anche questa stagione fece le foglie gialle. Nell 2003 Boros, collezionista illuminato, mise il bunker in saccoccia e cominciò a ripensarlo a modo suo.

Oggi i cinque piani del cubo di cemento si salgono e si scendono in comitiva, mentre un giovanotto illustra le opere più importanti con l'occhio all'orologio. Il bunker è sempre tale e quale, e da solo vale il prezzo del biglietto. Con tutte le sue metamorfosi e il belletto graffitaro che s'è dato nel corso degli anni. Peccato che solo delle banane non sia rimasta traccia. I gusti artistici di Boros ricordano davvero quelli dell'arabritannico Saatchi, colui che ha lanciato Damien Hirst e gli altri angry young men a Londra nel 1997, con la mostra Sensation. Basti dire che uno dei pezzi forti è Sarah Lucas, insieme allo scandaloso messicano Santiago Sierra. Lucas propone i suoi readymade sessuati e impertinenti, mentre Sierra ha conficcato quattro piloni grossi così a cavallo di due stanze, costringendo il signor Boros - o meglio, gli operai del signor Boros - a ritagliare quattro blocchi di muro spessi un metro e passa. A Sierra piace giocare con la costrizione imposta dal danaro, l'atto di pagare qualcuno e di renderlo, in termini legali, tuo schiavo. Kris Martin fa ciondolare una campana autentica per mezzo di un magnete (titolo hemingwayiano: For Whom) ed espone il proprio teschio in materiale metallico. Il teschio di un uomo vivo. Uno dei tanti ritratti sui generis sparsi per le sale e i cubicoli.

S'incontrano vasi che incarnano i gusti cromatici e floreali delle persone che rappresentano, blob in sospensione con parrucche ricciolute, e ancora ventilatori in moto perenne, anch'essi sospesi, vortici d'acqua creati in vitro, carretti fosforescenti illuminati da neon viola, rimasugli di op-art, finti progetti architettonici, provocazioni à la Ron Mueck (un finto malato in un letto d'ospedale esposto dirimpetto alla finestra di un ufficio; gli impiegati, ignari, mesi fa chiamarono polizia e giornalisti) e lightboxes che replicano i loghi di alcune multinazionali, ma senza il nome. Come la Esso senza Esso: campo bianco e ovale rosso. Dopo due ore la visita termina e ti tocca spingere la porta d'ingresso, pesante e levigata come il coglione di un colosso di Rodi. Sempre quella. A prova di bomba.