13. Dezember 2008

Bleierne Stadt


Questa macchina è un demonio: adula il mio ego dando forma ai miei pensieri. Non ha bisogno di trasformarsi in uno scarabeo arrapato, la Schreibmaschine di Kurt. Così com'è, con le dita che la martellano a raffica, è già un diavolo. Ogni tasto una tentazione. Perché mai resistere? Kurt Severing è uno dei protagonisti della saga a fumetti che Jason Lutes sta dedicando alla Berlino degli ultimi anni della Repubblica di Weimar, dal settembre 1928 al gennaio 1933. La prima parte è uscita nel 2000, Berlin: City Of Stones, tradotta in tedesco come Steierne Stadt. Il tomo secondo (2008) reca il titolo City Of Smoke, che la versione crucca "tradisce" optando per Bleierne Stadt, città di piombo. La casa editrice Carlsen ha preferito un aggettivo eufonico che richiamasse il primo titolo. Soluzione legittima che tuttavia si sgancia da un elemento importante della storia. Il fumo, per l'appunto, delle ciminiere alla ripresa del racconto (siamo nel giugno del 1929), quello dei sigari in bocca ai tozzi capitalisti immortalati da Grosz - e la fumana astratta, senza origine apparente, che commenta la morte di Stresemann nell'incipit del quarto capitolo. Ex cancelliere, il premio Nobel per la pace Stresemann era allora ministro degli Esteri. La sua morte in seguito a un infarto lasciò un vuoto nell'impalcatura già pericolante della Weimarer Republik.

Come il primo libro, anche Città di Piombo è suddiviso in otto capitoli. Lutes riprende alcuni personaggi - come Kurt e Marthe - e ne introduce di nuovi, in particolare un gruppo di jazzisti americani in trasferta, i "Cocosa Kids". Le peripezie dei protagonisti s'intersecano col corso della storia tedesca: proseguono gli scontri sanguinosi tra comunisti e camicie brune, la crisi americana arriva anche in Europa e le proposte della NSDAP in materia di economia e lavoro seducono una fetta sempre più ampia della popolazione. La politica, ben lungi dall'essere un mero fondale di cartone, è la vera protagonista dell'opera di Lutes.

Per quanto la simpatia dell'autore e del lettore cada necessariamente sui "Genossen" - per scelta spontanea o almeno per repusione nei confronti dell'altra estremità - Lutes si comporta da vero storico e cerca di raccontarci le cose come stavano. Con la DKP (il partito comunista) che mette mano alla pistola con la stessa furia dei suoi nemici ed Ernst Thällman, il segretario voluto da Stalin (assurto a eroe assoluto sotto la DDR), che sbraita e snocciola slogan in un comizio del tutto simile a quello di Goebbels. Cambiano giusto il vestiario e lo stile retorico. Con la SPD (il partito socialdemocratico) che brancola nell'incertezza e nella vacuità. E con "loro", i futuri mastini del Reich millenario, che marciano ordinati e propagano populismi precotti. Lutes sceglie di omettere la svastica, simbolo ad altissimo rischio kitsch. Così facendo, il lettore giudica le camicie brune per quello che fanno pagina dopo pagina invece che per quello che rappresent(er)a(n)o.

Bleierne Stadt è un romanzo a fumetti di finissima fattura. Lutes conosce a menadito ciò di cui parla (urbanistica compresa!) e ci regala uno spaccato che unisce l'autorevolezza del documentario al lirismo delle migliori graphic novel. Le tavole pulite, il tratto sobrio e preciso di Lutes sono una gioia per gli occhi. A suo modo, con la serie Berlin l'autore si fa portavoce di una nuova "Nuova Oggettività"... Tra le chicche di questo spicchio centrale delle trilogia, una scena licenziosa in stile Eyes Wide Shut e i retroscena della vita schwul (lesbo e gay) dei tardi anni '20. La marcia in più dell'edizione tedesca sono i dialoghi pronunciati dai personaggi più poveri, in berlinese stretto. Didi & Stulle: prendete nota.

6. Dezember 2008

Werner, fliegender Vater


Se c'è una cosa che non sopporta è il cinéma vérité. Werner Herzog lo ripete spesso: per catturare la verità non basta filmarla. Non basta una registrazione fedele. A lui interessa che sia la verità a catturarci. Che ci accechi questa verità, e ci ecciti. Ma Herzog non va alla ricerca di una verità qualsiasi, bensì di quella che chiama verità estatica. Questo spiega perché non esiste una linea di demarcazione netta tra la sua produzione narrativa e quella documentaristica.

Werner Herzog sostiene - senza scherzare troppo - che Fitzcarraldo è il suo miglior documentario. Un resoconto inscenato e filmato passo passo su come un uomo ossessionato dall'opera sia riuscito a (far) trasportare un battello oltre una collina. Per Herzog il cinema è sempre e comunque messa in scena, anche quando imbocca la strada neutrale e "giornalistica" del documentario. Senza una regia, senza uno sguardo presente e fisso sul soggetto, la verità non passa allo spettatore. O passa, ma sotto silenzio. Priva di ralenti, quella dell'intagliatore Steiner non sarebbe mai stata una grande estasi.

In Mister Lonely (2007), Werner Herzog torna a recitare per Harmony Korine dopo l'esperienza di Julien Donkey Boy (1999). Nel sesto film targato Dogma 95 Herzog interpretava il padre del protagonista, una maschera antigas calata sul viso. Anche stavolta interpreta un padre, ma in senso religioso. E' il missionario protagonista della vicenda che si dipana parallelamente alla trama principale del film. Mentre gli "impersonatori" giubilano nella loro comune scozzese, padre Umbrillo vola sulla jungla panamense in compagnia di un gruppo di suore che si scoprono in grado... di volare. Di atterrare, cioè, indenni, senza paracadute, dopo essersi divertite un mondo in caduta libera.

Padre Umbrillo è un Flying Padre quasi come il Fred Stadtmueller del corto di Kubrick del 1951. Non è un medico, Umbrillo, se non di anime, come quella di un uomo fedifrago col quale si intrattiene a lungo nel piano sequenza che lo introduce, di pacca, nel tessuto del film. Herzog è un grande fan del travagliato autore di Gummo (1997), e quando si piazza davanti al suo obiettivo scigolie le trecce e sfodera il suo umorismo impassibile e catastrofico, à la Buster Keaton. Si agita, Werner / Umbrillo, solo quando incita le suore a buttare i sacchi con i viveri, tant'è che una di loro perde l'equilibrio e vola giù, azzurra nell'azzurro - dando il la all'estasi. La scena in cui padre Herzog, in primissimo piano, riflette sul miracolo delle suore volanti sutura alla perfezione la sua idea di cinema estatico e riflessivo con quella più scabra e anti-fiabesca di Korine.

Mister Lonely è un film che dispensa singole perle e grandi idee, ma nel complesso non tiene. Forse Todd Solondz sarebbe stata la persona più adatta per dirigere il film, magari separando il tuorlo dall'albume (due storie consecutive, non montate, come in Storytelling) o calcando la mano sulla favola nera (Palindromes). Resta il fatto che la sottotrama estatica di padre Umbrillo è materiale da magnifica ossessione. Nel prefinale, il missionario scalda i motori e si prepara a volare in Vaticano con le sue suorine miracolate. Questo papa è bavarese, dice il regista bavarese. Mi farò un cicchetto come si deve.