11. Oktober 2008

Bunker-Art



Ich sammle Kunst, die ich nicht verstehe. Colleziono arte che non capisco. Così Christian Boros, il Saatchi di Berlino, che da pochi mesi ha sistemato le opere in sueo possesso nel pieno centro della città. In un bunker di superficie. La collezione ha aperto i battenti in primavera ma il numero dei visitatori è chiuso e sigillato, come si confà a un bunker. Il biglietto costa 10 euro - per la capitale tedesca, un'enormità - e si può prenotare la visita, rigorosamente guidata, solo via internet. Scegli tu sul calendarietto java che ti si spaparanza davanti. Hai impegni tra tre mesi? No perché prima non si può, è tutto pieno.

Il bunker di Reinhardt Str. 20, a due passi dalla stazione di Friedrichstr., ha una storia lunga e sbriciolata, alla faccia della sua imponenza monolitica. Nel 1941 non c'era più posto untergrund, per cui i nuovi bunker dovettero camminare sulla terra. Questo qua lo cominciarono i nazisti e lo finì l'Armata Rossa nel 1945, giusto in tempo per usarlo come prigione e luogo di torture. Col passaggio di consegne alla DDR, il Partito pensò bene di adibire il colosso a morbida dispensa. Vi stoccavano banane e ananas d'importazione (cubana?). Da lì il nome che è durato fino ai tardi anni '80, Bananenbunker. Niente di meglio, per una Bananenrepublik. Dopo la Wende - il cambiamento, ovvero la riunificazione - il bunker cadde nelle mani dei Ragazzi della notte, come direbbe Jerry Calà. Un paio di geniali architetti dell'intrattenimento notturno (precursori di chi ha inventato il Berghain) decisero di riqualificarlo quel minimo che bastava per ambientarvi party sado-maso e iniettarvi musica techno. Le mura vibrarono e furono testimoni di una nuova sequela di torture - questa volta volontarie. Ma anche questa stagione fece le foglie gialle. Nell 2003 Boros, collezionista illuminato, mise il bunker in saccoccia e cominciò a ripensarlo a modo suo.

Oggi i cinque piani del cubo di cemento si salgono e si scendono in comitiva, mentre un giovanotto illustra le opere più importanti con l'occhio all'orologio. Il bunker è sempre tale e quale, e da solo vale il prezzo del biglietto. Con tutte le sue metamorfosi e il belletto graffitaro che s'è dato nel corso degli anni. Peccato che solo delle banane non sia rimasta traccia. I gusti artistici di Boros ricordano davvero quelli dell'arabritannico Saatchi, colui che ha lanciato Damien Hirst e gli altri angry young men a Londra nel 1997, con la mostra Sensation. Basti dire che uno dei pezzi forti è Sarah Lucas, insieme allo scandaloso messicano Santiago Sierra. Lucas propone i suoi readymade sessuati e impertinenti, mentre Sierra ha conficcato quattro piloni grossi così a cavallo di due stanze, costringendo il signor Boros - o meglio, gli operai del signor Boros - a ritagliare quattro blocchi di muro spessi un metro e passa. A Sierra piace giocare con la costrizione imposta dal danaro, l'atto di pagare qualcuno e di renderlo, in termini legali, tuo schiavo. Kris Martin fa ciondolare una campana autentica per mezzo di un magnete (titolo hemingwayiano: For Whom) ed espone il proprio teschio in materiale metallico. Il teschio di un uomo vivo. Uno dei tanti ritratti sui generis sparsi per le sale e i cubicoli.

S'incontrano vasi che incarnano i gusti cromatici e floreali delle persone che rappresentano, blob in sospensione con parrucche ricciolute, e ancora ventilatori in moto perenne, anch'essi sospesi, vortici d'acqua creati in vitro, carretti fosforescenti illuminati da neon viola, rimasugli di op-art, finti progetti architettonici, provocazioni à la Ron Mueck (un finto malato in un letto d'ospedale esposto dirimpetto alla finestra di un ufficio; gli impiegati, ignari, mesi fa chiamarono polizia e giornalisti) e lightboxes che replicano i loghi di alcune multinazionali, ma senza il nome. Come la Esso senza Esso: campo bianco e ovale rosso. Dopo due ore la visita termina e ti tocca spingere la porta d'ingresso, pesante e levigata come il coglione di un colosso di Rodi. Sempre quella. A prova di bomba.